Don Dario, perché farsi prete oggi?

Rispondere alla chiamata sacerdotale, come a quella matrimoniale è aprire alla beatitudine la vita, è darle il respiro dell’Eterno, vale a dire di Dio e della sua vita, che in Gesù è stata dischiusa e resa partecipe a noi. Beatitudine, vita buona in pienezza, felicità in Dio realizzabile come grazia che redime, in una parola, la “gloria” di Dio sono le sorgenti fondative e motivazionali che mi hanno spinto a rispondere alla vocazione come risposta a Dio e alla sua grazia.

Come e quando hai avvertito la vocazione al sacerdozio?

Ho avvertito, maturato e declinato la vocazione al sacerdozio con due paradigmi: il dono e il compito.
Sul primo versante è emersa in me – attraverso il discernimento vocazionale – l’iniziativa di Dio della quale mi sento immeritatamente destinatario. Si tratta per me, per la mia libertà, di assumere “ieri come oggi” un atteggiamento recettivo: espressione non di un fare simmetrico e paritario tra me e Dio ma di un lasciarmi fare dalla grazia liberante e abilitante dello Spirito: «per grazia di Dio sono quello che sono» (1Cor 15,10). Mi percepisco una persona donata.
Sul versante del compito l’attenzione è rivolta alla mia risposta: all’adesione attiva e fedele della libertà. Nel dialogo vocazionale non si ha una libertà d’iniziativa. Tuttavia non senza la mia libertà. Non mi percepisco recettore passivo e inerte del dono di Dio. Dall’iniziativa divina è sollecitata la mia libertà di risposta. Tutto ciò lo avverto quotidianamente.

Racconta una sorpresa che ha segnato il tuo cammino vocazionale?

A questa domanda rispondo: «Prego – scrive Paolo ai Filippesi – che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni delicato sentimento per discernere e scegliere il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil 1,9-10). Il sapere della fede è stato centrale nel mio cammino vocazionale perché agli albori del mio percorso verso il sacerdozio un timore che mi ha sempre accompagnato è stato la paura degli studi teologici.1 Oggi questo sapere o intelligenza della fede o della ragione ne è all’origine e al fondamento della mia vita sacerdotale: «fides quaerens intellectum».
Il capire per credere: «intelligo ut credam» è diventato il centro di tutto: fides et ratio: «Se la fede non è pensata è inesistente».2 Sia chiaro: l’Evangelo non è dimostrabile: «L’Evangelo è soltanto credibile, esso può essere soltanto creduto»3.
Scherzi a parte, chi l’avrebbe mai immaginato che il Dario del propedeutico impaurito per gli studi sarebbe giunto addirittura a fare del sapere della fede il motivo dei suoi ulteriori studi accademici?

Don Dario, sappiamo che ti occupi teologia morale, recentemente hai pubblicato: L’ultima cena di Gesù: alle sorgenti eucaristiche dell’agire morale nuovo. Presupposti antropologici della fede. Perché questo testo? Cosa t’ha spinto a scrivere? Cosa rappresenta per te la fede?

La teologia mi ha sempre affascinato. Tuttavia, non tanto quella del volto teoretico della dogmatica quanto piuttosto quella del volto pratico della morale. Non la ratio fide illuminata della teologia teoretica, ma la ratio practica fide illuminata della teologia morale. «Operativa scientia» la dice san Tommaso4: scienza pratica. Un giorno, il giovane maestro della legge chiese a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Lc 10,25; Mt 19,16). C’è una stretta connessione tra la “vita eterna” – espressione della realizzazione, bontà, serenità, riconciliazione, contentezza, pace della vita – e il “fare buono”, l’operare secondo il bene. È stata questa l’ispirazione che mi ha portato a compiere gli studi dottorali in teologia morale e a pubblicare la mia tesi. La riuscita della vita è l’aspirazione di tutti, ma non si compie per un qualche determinismo del fare (tecnico), né tantomeno per un modo meramente appagante di fare il bene sotto il profilo del piacere, del vantaggio o dell’utile ma della serenità interiore e affettiva, nonché della speranza del godimento eterno. Attraverso questo libro ho cercato di offrire uno sguardo globale per considerare la vita come un tutto, la vita come il bene e della sua fioritura.

CONSUMACI

Consumaci, o Signore, per il bene dei fratelli, al fuoco lento del “martirium cordis” che ci fa morire dentro quando sperimentiamo la rimonta del peccato.
Quando vediamo l’inutilità dei nostri sforzi.
Quando abbiamo la sensazione di aver lavorato tutta la notte senza aver preso nulla.
Quando ci accorgiamo che le nostre braccia sono troppo corte per poter rispondere ai bisogni della gente.
Quando avvertiamo la responsabilità di dover essere “modelli del gregge”, eppure ci sentiamo tanto poveri e così poco imitabili.
Quando ci mortifica l’insufficienza delle dighe da noi erette contro il dilagare del male.
Quando vediamo con amarezza il crepitare della violenza, il diffondersi della droga, la fuga dalla tua legge.
Prenditi tutto di noi, Signore. Per il bene dei nostri fratelli. Te lo diamo con gioia. Esultando. Perché sappiamo che tutto sfocerà in un estuario di beatitudine senza fine, e in un esito di salvezza per il tuo gregge.
Mettiamo a tua disposizione i nostri giorni, i nostri beni, i nostri affetti.
Non vogliamo trattenere nulla per noi. Neppure la salute. Neppure la reputazione. Neppure il nome.
Che se poi, oltre che col cuore, vuoi prenderti la nostra vita “effectu”, di fatto cioè, noi te la doniamo gratis.
Senza le lusinghe dell’eroismo. Con l’umile atteggiamento della restituzione. Felici che possa servire a qualcuno.
(Don Tonino Bello)

Francesca Leone
professoressafrancesca@gmail.com

1«Amor ipse notitia est (l’amore stesso è una forma di conoscenza)» (Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 172, a. 4).
2Sant’Agostino, De predeast. sanctorum 2,5, in PL 44, 963. Questa affermazione contraddice già in anticipo l’alternativa semplicistica: «O si crede o si pensa» di Arthur Schopenhauer (1788-1860). Cf. A. Schopenhauer, O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, BUR, Rizzoli 2000 (or. ted. 1851).
3K. Barth, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1962, 19782 (or. ted. 1919), 14 (corsivo originario). «Consideratio rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse (l’intelligenza comprende in modo ragionevole l’essere incomprensibile)» (Sant’Anselmo, Monologium, in PL 158, 210). «Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano», diceva B. Pascal, Pensieri, Mondadori, Verona 1774 (or. fr. 1670), 139.
4Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, prologus.

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